GIOVANNI FRANGI SHOWBOAT A UDINE La collaborazione fra Giovanni Frangi e la Stamperia d’arte Albicocco prende avvio nei primi anni Duemila, e da allora segna una fedeltà e continuità di collaborazione che nel tempo ha dato una svolta al rapporto fra l’artista milanese e l’arte a stampa. Ne dà conto, presso i locali della stamperia, la mostra Showboat a Udine, che riprende il titolo dalla mostra antologica curata da Giovanni Agosti presso il Castello Sforzesco di Milano lo scorso anno, ma presenta una serie di fogli inediti degli ultimi dieci anni, attraverso i quali è possibile seguire l’evoluzione pittorica e grafica dell’artista milanese. La scommessa su Frangi da parte di Albicocco, infatti, si è basata su un assunto semplice: tradurre nella lingua della calcografia i gesti e i modi che l’artista usa in pittura, e di ottenere quegli effetti di profondità, di trasparenza e di immersione permanente entro un’atmosfera che caratterizzano la stagione più recente del suo confronto con la natura e con il paesaggio. Se infatti il monotipo, con cui Frangi si era cimentato in anni precedenti, è una tecnica tutto sommato vicina ai modi del dipingere - pur richiedendo una propria specifica logica nella somma e stratificazione dei colori - il passaggio alla morsura dello zinco impone una disciplina progettuale anche ai temperamenti più istintivi: ci vuole un azzardo immaginativo nel tracciare le forme e i profili solarizzati dei tronchi degli alberi, o l’ossatura di un paesaggio d’acqua e di terra, con una vernice trasparente sulla lastra nuda, prevedendo un risultato di cui non si può avere un riscontro immediato, e che nel caso di immagini stampate con più di un colore richiede persino una scomposizione su più matrici del processo creativo e il suo ri-assemblaggio sotto il torchio. Ma il punto cruciale di questa operazione, in fondo, non sta qui, quanto nell’aver superato un certo specifico “calcografico” del rapporto fra segni e campiture granite in favore di un approccio eterodosso alla lastra che raggiunge una competizione diretta con la pittura, e che senza tradire la propria disciplina artigianale conserva quell’effetto di tracciato alla prima. Quella di Frangi, infatti, è un’immagine impaziente, che risponde a un’urgenza di gesto e di impressione istantanea, unita a una sperimentazione continua di materiali e supporti immettendo nel discorso pittorico suggestioni che lo emancipano dal rischio, tutto lombardo, di una caduta nel naturalismo: i sassi di fiume rossi o azzurri, che volentieri si tramutano in pesci, sono macchie che prendono forma come da una fotografia solarizzata, o da una carta poco esposta in camera oscura che ha fatto in tempo a carpire le masse e non i dettagli. E su queste, come sulle cortecce degli alberi, ma anche nelle vedute grandangolari che tracciano paesaggi di natura, un abbaglio di rosa o di verde trasporta in una dimensione straniante (il «dispositivo di straniamento» cui alludeva Verzotti nel 2008), inequivocabilmente artificiale, che modifica la consistenza dell’immagine percepita dall’occhio. Quel segno largo, ispessito da una superficie compatta e vellutata - e sono rari, nell’incisione italiana, dei “neri” così intensi e profondi come quelli della Stamperia udinese – si materializza con il rilievo del carborundum, ma allo stesso tempo dialoga con l’immersione in un’atmosfera umida e interferente data dal lavis, o dalla combinazione della pennellata diretta con acido di morsura sulla lastra con la maniera a zucchero, la sola capace di restituire l’immediatezza di una pittura che cola sulla superficie come su tela. Ed è così, dunque, che di foglio in foglio prendono vita frammenti di natura che non sono ombre, ma abbagli in piena luce. LUCA PIETRO NICOLETTI